Perche' le imprese piu' innovative sono quelle con i buchi
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Perche' le imprese piu' innovative sono quelle con i buchi

PER LE SOCIETA' CON NETWORK INTERNI DENSI E COESI E' PIU' DIFFICILE UTILIZZARE AL MEGLIO LA CONOSCENZA ESTERNA. QUANDO I NETWORK SONO PIU' APERTI E I LAVORATORI TAPPANO I BUCHI DELLA LORO RETE DIALOGANDO CON CHI HA COMPETENZE DIVERSE, LA PRODUZIONE DI BREVETTI, INVECE, AUMENTA

Le organizzazioni con reti relazionali interne di tipo aperto hanno maggiori possibilità di produrre innovazione assorbendo conoscenze esterne rispetto a quelle basate su network chiusi. È il risultato di una ricerca pubblicata dallo Strategic Management Journal e condotta da Marco Tortoriello, docente di Strategy and Organizations alla Bocconi e direttore del Doctorate in Business Administration (DBA) di SDA Bocconi School of Management. Lo studio si concentra su una multinazionale che produce semiconduttori, ma è generalizzabile a tutte le organizzazioni in cui le conoscenze sono essenziali: dipartimenti ricerca e sviluppo, uffici di avvocati, agenzie di pubblicità e consulenza.
 
Affermare che investire in ricerca e sviluppo è una condizione essenziale per assorbire conoscenze esterne non è sufficiente. In The Social Underpinnings of Absorptive Capacity: The Moderating Effects of Structural Holes on Innovation Generation Based on External Knowledge (in Strategic Management Journal, Volume 36, Issue 4, Pages 586-597, doi: 10.1002/smj.2228), Tortoriello si concentra, perciò, sui meccanismi che aiutano a mettere in circolo tali conoscenze, favorendo così lo sviluppo dell’innovazione. Per sondarli, sottopone un questionario a 276 persone che coprono posizioni di rilievo nella divisione R&D di una multinazionale, operanti in 16 laboratori in varie parti del mondo. “La loro produttività”, spiega Tortoriello, “è misurata in relazione al numero di nuovi brevetti: la generazione di innovazione è quindi una parte fondamentale della loro attività”.
 
Il questionario ha rilevato sia le conoscenze scientifiche e industriali assorbite dall’esterno, sia il tipo di network di scambio di informazioni interno relativo a ogni soggetto: si tratta di una rete aperta o chiusa? I legami con i colleghi sono forti o deboli? Quanto è frequente lo scambio di informazioni? La variabile dipendente dello studio è costituita dai brevetti effettivamente registrati, che sono stati osservati nell’arco dei due anni successivi alla somministrazione del questionario rilevando il numero di diritti esclusivi conferiti dallo United States Patent and Trademark Office.
 
Il risultato: a parità di conoscenze esterne, la configurazione del network dei lavoratori fa la differenza nella traduzione delle conoscenze in output scientifici. “La persona che ha un network costituito da legami aperti – quelli che in gergo chiamiamo structural holes, ‘buchi’ che il lavoratore copre interfacciandosi con soggetti della medesima azienda aventi competenze differenti – si trova nelle migliori condizioni per riutilizzare le conoscenze esterne”. Al contrario, la natura del sapere dei soggetti al centro di una rete più densa è omogenea e rende più difficoltoso cogliere e decodificare la conoscenza proveniente dall’esterno. “Il problema delle organizzazioni di una certa dimensione è rompere questi silos di omogeneità che provocano la compartimentazione delle conoscenze. La sfida è sviluppare legami che fanno da ponte verso altri ambiti”.
 
Lo studio mette in relazione i filoni di ricerca tradizionalmente separati che si occupano da una parte dell’importanza delle conoscenze esterne, dall’altra della capacità di mobilizzarle all’interno dell’organizzazione. Il focus sugli individui è in questo senso fondamentale. “A chi gli chiedeva com’è possibile capire il funzionamento di un’organizzazione, il premio Nobel Herbert Simon rispondeva: andate a parlare con i manager. Lo studio sulle organizzazioni non può prescindere dall’importanza degli individui. Gli studi sui big data sono importanti, ma abbiamo tanto da imparare anche dagli small data”.

di Claudio Todesco
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