Quando la flessibilita' salariale in un'unione monetaria puo' essere dannosa
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Quando la flessibilita' salariale in un'unione monetaria puo' essere dannosa

LA FLESSIBILITA' SALARIALE E' SPESSO CONSIDERATA UN SOSTITUTO DELLA FLESSIBILITA' DI CAMBIO NEI PAESI CHE HANNO ADERITO A UN'UNIONE MONETARIA, MA UN ARTICOLO DI MONACELLI E GALI DIMOSTRA CHE I SUOI EFFETTI POTREBBERO ESSERE NEGATIVI PROPRIO QUANDO UN PAESE RINUNCIA A UNA POLITICA MONETARIA AUTONOMA. LA SOLUZIONE: UNA POLITICA DI BILANCIO ESPANSIVA

Gli shock asimmetrici sono il tallone d'Achille delle unioni monetarie. Quando uno shock esterno colpisce in modo non uniforme diverse regioni di un’unione, ai paesi più colpiti, che hanno rinunciato a una politica monetaria autonoma e hanno accettato vincoli alla politica di bilancio, rimangono poche possibilità di reazione. In molti, dunque, auspicano riforme strutturali e, soprattutto, la riduzione dei salari o un aumento della loro flessibilità, che si ritiene possano compensare gli effetti negativi dello shock aggregato su occupazione e produzione. Nella misura in cui la flessibilità salariale agisce come sostituto della flessibilità di cambio, è considerata particolarmente desiderabile nelle economie che hanno aderito a un'unione monetaria. La Grande Recessione e la crisi del debito sovrano si qualificano come shock asimmetrici per l'area euro, perché hanno colpito l'Europa meridionale con maggiore violenza rispetto ai paesi del Nord, e gli appelli della Banca centrale europea per le riforme strutturali si susseguono da anni.
 
Un articolo di Tommaso Monacelli (Dipartimento di Economia) e Jordi Galí (Universitat Pompeu Fabra) sostiene che la logica di cui sopra può essere viziata. Il paper mostra che un aumento della flessibilità dei salari potrebbe essere addirittura dannoso per il benessere sociale in un'economia che fa parte di un'unione monetaria. In Understanding the Gains from Wage Flexibility: The Exchange Rate Connection (di prossima pubblicazione in American Economic Review), gli studiosi ottengono i loro risultati utilizzando un modello di una piccola economia aperta, appartenente a un’unione monetaria.
 
La riduzione dei salari, spiegano gli autori, si traduce in guadagni di produzione, domanda e occupazione attraverso due meccanismi di trasmissione. Il primo, il canale della competitività, è piuttosto semplice: stipendi più bassi significano migliori ragioni di scambio e maggiore competitività: i prodotti nazionali sostituiscono quelli stranieri, stimolando la domanda aggregata e aumentando così produzione, domanda e occupazione. Il secondo meccanismo, il canale della politica monetaria endogena, è più complesso: una riduzione dei salari riduce l'inflazione, innescando una risposta di politica monetaria; ed è la politica monetaria più accomodante che stimola la domanda aggregata. Ma quando un paese non può attuare una politica monetaria nazionale, come accade in un'unione monetaria, questo secondo canale è disattivato e l'effetto della riduzione dei salari sul benessere può essere nullo o addirittura negativo.
 
"Un aumento della flessibilità dei salari deve essere integrato da politiche in grado di stimolare la domanda aggregata", riassume Monacelli, "e nel caso di un’unione monetaria solo una politica di bilancio espansiva può raggiungere l'obiettivo".
 
L'implicazione per la zona euro è che una politica fiscale europea coordinata dovrebbe consentire ai paesi colpiti da uno shock asimmetrico di attuare politiche di bilancio espansive, allentando i vincoli di Maastricht. "Questa possibilità dovrebbe comunque sempre andare di pari passo con l'attuazione delle riforme strutturali", prosegue Monacelli, "perché i due interventi sono complementari. Poiché la risoluzione di una crisi locale evita ricadute sul resto dell’area, inoltre, ne trarrebbe beneficio l'intera Unione".
 
Le politiche di bilancio e le riforme strutturali, però, hanno tempi diversi e i mercati finanziari potrebbero rispondere negativamente al rischio di un governo spregiudicato che potrebbe prima raccogliere i benefici di una politica di bilancio espansiva, senza poi pagare il costo delle riforme strutturali. "Sarebbe fondamentale trovare un modo per impegnare il governo alla sua risoluzione, attraverso un contratto fiscale davvero credibile", dice Monacelli.
 
La combinazione del Jobs Act e delle richieste di maggiore flessibilità fatte dal governo italiano alla Commissione europea sono un timido passo nella direzione suggerita dai risultati del paper. “Ma si è osato troppo poco su entrambi i fronti”, commenta Monacelli. “Il Jobs Act non rende abbastanza flessibili le retribuzioni e la flessibilità di bilancio ottenuta dall’Europa è insufficiente”.

di Fabio Todesco
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