Innovazione nei servizi: perche' non basta un data scientist in azienda
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Innovazione nei servizi: perche' non basta un data scientist in azienda

UNO STUDIO INDIVIDUA COME DEVONO CAMBIARE LE IMPRESE CONSOLIDATE DI SERVIZI PER SFRUTTARE LE POTENZIALITA' DEI BIG DATA. I NUOVI DATA SCIENTIST DEVONO SAPERE DI BUSINESS ED ESSERE PRESENTI IN AZIENDA SECONDO UNA STRUTTURA SPOKE AND HUB, CHE NON LI RELEGHI ALLA DIREZIONE CENTRALE

La letteratura manageriale sui big data propende per la narrazione dei successi delle imprese di servizi “native digitali”, da Amazon a Airbnb, da Uber a Foodora. Manca invece una riflessione approfondita sulle soluzioni che le aziende di servizi consolidate, cioè quelle che si sono sviluppate con una struttura organizzativa e una cultura aziendale nell’era pre digitale, possono adottare al fine di sfruttare l’enorme mole di dati oggi a disposizione. È una lacuna colmata da Gabriele Troilo (Bocconi), Luigi M. De Luca (Cardiff University) e Paolo Guenzi (Bocconi) in Linking Data-Rich Environments with Service Innovation in Incumbent Firms: A Conceptual Framework and Research Propositions (doi: 10.1111/jpim.12395). Lo studio è stato finanziato dal Marketing Science Institute e premiato come Best Runner Up Paper in un numero speciale di Journal of Product Innovation Management dedicato ai big data. “L’impatto delle grandi quantità di dati sull’innovazione non ha a che fare solo con la tecnologia”, spiega Troilo, “ma anche con cultura e struttura organizzativa, processi, ruoli e competenze”.
 
Attraverso interviste a top manager di grandi aziende di servizi italiane, britanniche e statunitensi consolidatesi in un’epoca precedente all’avvento dei big data, e operanti in vari settori, dalle telecomunicazioni alle assicurazioni, dalle utilities alle banche, gli autori hanno individuato i meccanismi organizzativi che favoriscono la realizzazione del potenziale offerto dai big data. “Le aziende devono operare un cambiamento nei modelli organizzativi e decisionali adottando e diffondendo al proprio interno una cultura del dato, ovvero la volontà e la capacità di prendere decisioni basate sui dati e non sull’intuito o sull’esperienza. Un secondo cambiamento culturale ha che fare con una parola che oggi va molto di moda: customer-centricity”, ovvero la filosofia aziendale che mette il cliente al centro di ogni decisione. Questo garantisce che le decisioni basate sui big data abbiano un focus unico per tutte le funzioni aziendali, ottimizzando sia l’efficienza che l’efficacia delle decisioni stesse.
 
Vi sono poi meccanismi di tipo strutturale, come l’integrazione fra marketing e sistemi informativi, due funzioni che in futuro potrebbero confondersi sempre più, e la creazione di ruoli che favoriscano l’utilizzo e la diffusione della cultura del dato. “Si fa un gran parlare di data scientist. Tutti gli intervistati ci hanno spiegato che il data scientist non deve avere solo competenze tecniche, ma anche di business e relazionali. Deve assumere un ruolo educativo, comunicare con le altre funzioni, aiutare le persone che prendono decisioni a capire il valore del dato”. Le strutture organizzative più avanzate, inoltre, hanno una struttura hub-and-spoke, con data scientist non solo in un’unità centrale, ma anche all’interno delle varie linee di business che sviluppano soluzioni informatiche specifiche.
 
“Il vero tema connesso ai big data non è di tipo tecnologico, ma manageriale-organizzativo”, spiega Troilo. “Ecco perché gli investimenti tecnologici non producono automaticamente innovazione. Oggi molti si chiedono se le aziende pre digital sopravviveranno alla rivoluzione dei big data. La risposta è positiva, ma condizionata: sopravviveranno, ma solo se saranno in grado di adottare nuovi modelli organizzativi. È un processo di trasformazione che sta cambiando il modo di prendere decisioni e di lavorare”.

di Claudio Todesco
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