Quattro sfumature di deglobalizzazione
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Quattro sfumature di deglobalizzazione

IN UNA TECHNICAL NOTE NELLA HBS CASE COLLECTION, VALERIA GIACOMIN E GEOFFREY JONES TRACCIANO I DIVERSI SCENARI CHE POTREBBERO PORTARE ALLA FINE, O ALLA REDIFINIZIONE, DELLA GLOBALIZZAZIONE

In tempi recentissimi, un terremoto in Giappone, un black-out in Texas, l’incagliamento di una portacontainer nel Canale di Suez, la pandemia e la guerra in Ucraina hanno interrotto importanti catene di approvvigionamento, limitando il flusso di beni essenziali come i microchip, il gas e il cibo e mettendo così in discussione la globalizzazione come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 40 anni – a partire, cioè, dalle riforme di Ronald Reagan e Margaret Thatcher e dal passaggio della Cina all’economia di mercato.
 
In realtà, forti indizi di un processo di deglobalizzazione erano evidenti da molto tempo, ricorda Valeria Giacomin (Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche) in “Deglobalization and Alternative Futures,” una technical note scritta con Geoffrey Jones (Harvard Business School) come base di discussione da usare nel corso delle lezioni e pubblicata nella HBS Case Collection.
 
Giacomin e Jones individuano quattro macrofattori che, dall’inizio degli anni 2000, spingono verso la deglobalizzazione, e disegnano quattro scenari alternativi della possibile evoluzione, ripercorrendo gli eventi economicamente salienti degli ultimi decenni.
 
I fattori che hanno contribuito a invertire il corso della globalizzazione sono l’emersione del terrorismo globale, la crisi finanziaria del 2008, la crescita del populismo e di regimi autoritari, l’acuirsi della rivalità economica tra Stati Uniti e Cina. La crisi finanziaria del 2008, in particolare, si è dimostrata un punto di svolta, perché i livelli di integrazione hanno cominciato a diminuire proprio allora e non si sono più ripresi.
 
La pandemia ha contribuito al trend non solo per la presa di coscienza della dipendenza da catene del valore molto lunghe per l’approvvigionamento di beni fondamentali come i presidi sanitari, ma anche perché, come scrivono gli autori, “dopo anni di liberalizzazioni, in Occidente, il COVID-19 e il cambiamento climatico hanno riportato in vita l’intervento economico dei governi.” Il nuovo attivismo dei governi nazionali, e soprattutto di quelli autoritari, è favorito, inoltre dalla disponibilità di big data che rafforzano i loro sistemi di sorveglianza.
 
La technical note si conclude proponendo (per la discussione) quattro scenari alternativi:
 
Il ritorno alla normalità. “Secondo questa ipotesi,” dice Giacomin, “abbiamo visto passare alcuni cigni neri che hanno temporaneamente rallentato i flussi fisici di commercio e di capitale. Ma i flussi di dati e di informazione vanno a sostituire i flussi fisici e la globalizzazione si rifocalizza intorno alla Cina.”
 
Ritorno al futuro. Ovvero a spinte autarchiche simili a quelle che hanno interessato l’Occidente negli anni ’30 del secolo scorso, dopo la crisi del 1929.
 
Regionalizzazione. Si può leggere il momento attuale come un passaggio da una globalizzazione vera e propria a una situazione in cui gli scambi si riorganizzano in cluster regionali, con Stati Uniti, Europa, Cina e altri al centro di reti più piccole e coese.
 
Armageddon. Un secolo fa, la prima ondata di globalizzazione fu bruscamente interrotta dalla Prima Guerra Mondiale. Mentre la guerra in Ucraina fa intravedere la possibilità di un collasso del sistema globale, gli autori ammoniscono: “Questa volta ci sono le armi nucleari.”
 

di Fabio Todesco
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