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Le nuove sollecitazioni dall'Europa per la disciplina dell'insolvenza delle imprese

, di Andrea Costa
Secondo Cesare Cavallini, la disciplina delle crisi di impresa e' a un punto di svolta tra norme nazionali ed europee

L'Unione europea sta agendo su più fronti per eliminare i punti di frizione delle legislazioni nazionali e rafforzare il mercato unico dei capitali come strumento per rilanciare l'intera economia dell'Eurozona. Un aspetto di cui si parla relativamente poco ma di grande rilevanza è quello della gestione delle crisi d'impresa.

Abbiamo chiesto come stanno le cose a Cesare Cavallini, professore di Diritto Processuale civile e Diritto della Crisi d'impresa e direttore del Dipartimento di Studi Giuridici dell'Università Bocconi, di cui è in via di pubblicazione l'articolo "La disciplina della crisi d'impresa e le nuove sollecitazioni dall'Europa. Prime riflessioni."

Professor Cavallini, è giusto dire che siamo in un periodo di transizione, per quanto riguarda le norme sulle imprese in crisi?
Possiamo definirlo così. Il proposito di una disciplina europea uniforme (o il più possibile meno frammentata e disallineata) avanzato dall'unione Europea sembra non conoscere sosta. All'indomani dell'entrata in vigore, in Italia, del Codice della Crisi, dopo una lunga gestazione, e un tentato (ma parzialmente riuscito) bilanciamento tra i principi della Legge Delega e la Direttiva europea c.d. Insolvency del 2019, i legislatori degli stati membri si troveranno ben presto al cospetto di una seconda e potente direttiva, al momento allo stato di proposta (2022/0848), ben distinta dalla precedente, per funzione e contenuto.

Ma perché c'è bisogno di un ulteriore intervento? Cosa deve essere perfezionato? In Italia a che punto siamo?
L'esigenza di una seconda Direttiva, a poca distanza dall'ormai nota Direttiva Insolvency del 2019 scaturisce sia dalla consapevolezza della parzialità precettiva di quest'ultima, sia dalla sua concreta difficile attuazione da parte degli Stati membri, almeno per il momento. Ne costituisce un esempio il caso italiano, proprio a seguito del nuovo Codice della Crisi, che ha consegnato al passato l'antica Legge Fallimentare. Da più parti si è infatti sottolineato come uno dei cardini della Insolvency – la previsione di un piano di ristrutturazione preventiva destinato alle imprese in insolvenza prospettica, ma non conclamata – si è tradotto principalmente nella previsione di strumenti di composizione negoziata della crisi applicabili anche alle imprese insolventi. Il che, al di là di una spesso marginale collocazione satisfattoria per molti creditori, rappresenta sì una normativa attuativa della Legge Delega, ma non soddisfa completamente la direttiva stessa, che al contrario era centrata sugli strumenti volti ad approcciare l'impresa in crisi per evitare l'insolvenza vera e propria (cioè l'irreversibile illiquidità).

Qual è la logica in cui si muove l'Unione europea?
L'Europa ritorna a stimolare un maggior adeguamento alle proprie direttive e, soprattutto, una maggiore uniformazione delle legislazioni domestiche, questa volta approcciando ben diversamente la tematica dell'insolvenza delle imprese, e, per taluni aspetti, integrando (necessariamente) la prospettiva e l'incidenza del proprio intervento in un contesto più ampio, e in linea di coordinamento con altri interventi e azioni su altri fronti.
Il punto focale (ma non l'unico) del nuovo intervento europeo è infatti dato dalla necessità di massimizzare la consistenza patrimoniale dell'impresa insolvente, puntando essenzialmente su una più efficace resa delle varie tipologie di azioni revocatorie, con previsioni sanzionatori radicale e ipotesi risarcitorie per la massa ulteriore alla pur importante funzione recuperatoria delle azioni stesse (di denaro o beni liquidabili).

Pare di capire quindi che è necessario un cambio di paradigma, non solo un semplice adeguamento normativo.
Con questa ulteriore proposta di direttiva il baricentro della legislazione della crisi d'impresa torna ad essere il creditore, che da soggetto destinato spesso a sobbarcarsi il costo della continuità aziendale (come mainstream del Codice della crisi) torna ad essere il soggetto che viene destinato alla migliore soddisfazione possibile. E, soprattutto, torna ad esserlo in una logica di coerente azione europea, mediata da valutazioni di analisi economica magari basiche, ma foriere di un'efficienza pragmatica e politica di massimo rispetto.

Se infatti l'impresa-creditore sa di poter contare, in ogni Stato membro, di una sistema di recupero dei pagamenti e degli atti presunti in frode ai creditori (e a vantaggio di pochi di essi) efficace, celere ed effettivo, sarà stimolata ad investire, sopportando il minor costo-rischio di capitale. Non è casuale, anzi voluta, l'origine della proposta di direttiva come strumento di attuazione del piano di Azione Europeo a favore del Mercato Unico di Capitali: che presuppone una "concorrenza alla pari" delle legislazioni domestiche proprio nella disciplina più delicata: quando il capitale investito si perde nel capitale insolvente.