Quando l'austerita' funziona e quando no
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Quando l'austerita' funziona e quando no

ALBERTO ALESINA, CARLO FAVERO E FRANCESCO GIAVAZZI ESAMINANO I COSTI DELL'AUSTERITA' IN TERMINI DI PRODUZIONE, GLI EFFETTI CONTRASTANTI DEI DIVERSI TIPI DI AUSTERITA' E LE CONSEGUENZE ELETTORALI PER I GOVERNI CHE LA ATTUANO. UN ESTRATTO DAL LORO NUOVO LIBRO, CHE SARA' PRESENTATO IN BOCCONI IL 19 FEBBRAIO

Gran parte del dibattito sugli effetti macroeconomici delle politiche di riduzione del disavanzo (austerità) si è concentrato sulla possibilità di un'austerità espansiva. Questa discussione ha distratto i commentatori e i policymaker dall’evidenza più rilevante per le politiche economiche, vale a dire l'enorme differenza, in media, tra i piani di austerità basati sui tagli di spesa e quelli basati sulle tasse. I piani di austerità basati sulla spesa sono notevolmente meno costosi di quelli basati sulle tasse. I primi hanno, in media, un effetto vicino allo zero sulla produzione e portano a una riduzione del rapporto debito/PIL. I piani basati sulle tasse hanno l'effetto opposto e causano grandi e durature recessioni, spiegano Alberto Alesina (Harvard), Carlo Favero (Bocconi) e Francesco Giavazzi (Bocconi) nella nuova pubblicazione Austerità. Quando funziona e quando no. Con il permesso dell’editore, Rizzoli, e degli autori, Bocconi Knowledge pubblica un estratto del libro, che sarà presentato in Bocconi il 19 febbraio (CLICCA QUI per il programma)
 
Il principale messaggio di questo libro è che esistono due tipi di austerità: solo partendo da questo presupposto sarà possibile comprenderne appieno gli effetti. Il primo tipo di austerità si basa su aumenti delle tasse, dirette o indirette: nelle economie OCSE che hanno livelli di tassazione già molto alti, ulteriori aumenti delle imposte hanno esattamente gli effetti che i detrattori dell’austerità temono, ossia sono fortemente recessivi nel breve-medio periodo (fino a tre, quattro anni dopo la loro introduzione) e sono seguiti da significative contrazioni del PIL. Al contrario, le politiche di austerità basate su tagli alla spesa – almeno considerando i Paesi OCSE negli ultimi tre decenni – hanno avuto effetti opposti a quelli previsti dal fronte anti austerità: i loro costi in termini di perdita di prodotto sono stati molto bassi, in media vicini a zero. L’austerità basata su aumenti delle tasse è spesso risultata in un aumento del rapporto debito/PIL; è però difficile dire se tale rapporto sarebbe cresciuto anche di più in assenza di quegli aumenti. Al contrario, l’austerità basata su tagli alla spesa ha spesso portato a riduzioni significative del rapporto debito/PIL. Il fatto che aumenti delle tasse e riduzioni della spesa abbiano effetti diversi dipende da due fattori: il primo è che queste due politiche hanno risultati diversi sul denominatore del rapporto debito/ PIL, come mostrato sopra; il secondo è che i tagli alla spesa – in particolare quelli che limitano l’aumento delle voci di spesa automatiche, come i programmi di previdenza sociale – hanno un effetto più duraturo sul deficit rispetto agli aumenti delle tasse. Questo avviene perché le tasse dovranno prima o poi coprire la crescita automatica dei vari programmi di spesa, se questa non è affrontata in altro modo.

Se la tassazione continua ad aumentare, la crescita del prodotto interno lordo ne sarà rallentata, e questo inciderà sul denominatore del rapporto debito/PIL; in caso contrario, il numeratore aumenta, perché la spesa cresce mentre il gettito fiscale resta invariato.

(…)

L’austerità può essere espansiva. L’austerità espansiva si ha quando la riduzione della spesa pubblica è più che compensata dalla crescita delle altre componenti della domanda aggregata (consumi, investimenti ed esportazioni nette). Più avanti studieremo il ruolo particolarmente importante degli investimenti privati.

Poiché l’idea dell’austerità espansiva ha generato un certo scetticismo, è importante chiarire fin da subito questo concetto: considerare la possibilità che l’austerità sia espansiva non significa assumere che l’economia cresca ogni volta che un governo riduce la spesa pubblica. L’espressione «austerità espansiva» si riferisce piuttosto al fatto che, in certi casi, il costo diretto in termini di PIL dei tagli alla spesa è più che compensato dalla crescita di altre componenti della domanda aggregata.

Dunque cosa vuol dire, esattamente, che l’austerità può essere «espansiva»? Si potrebbe dire che l’austerità è espansiva quando si osserva crescita positiva nel periodo in cui viene messa in atto una politica di austerità, o nei periodi immediatamente successivi. Questa però sarebbe una definizione piuttosto poco efficace: immaginiamo che siano adottate politiche di austerità in un periodo in cui la maggior parte delle altre economie sono in espansione, e che il Paese che implementa tali politiche consegua una crescita minore della media, ma pur sempre positiva.

Avrebbe senso parlare di «austerità espansiva» in questo caso? E un ragionamento simmetrico vale nell’eventualità in cui un Paese applichi politiche di austerità durante una recessione mondiale. In alternativa, l’austerità potrebbe essere definita espansiva quando è accompagnata da un tasso di crescita del PIL che supera una certa soglia (ad esempio quando tale tasso di crescita è fra i più alti registrati nello stesso periodo in Paesi simili). Questa è la definizione che adotteremo nel corso della nostra analisi descrittiva.
Uno sguardo d’insieme alle evidenze empiriche disponibili suggerisce alcuni esempi di austerità espansiva: Austria, Danimarca e Irlanda negli anni Ottanta; Spagna, Canada e Svezia negli anni Novanta. Nel periodo successivo alla crisi finanziaria, i due Paesi che hanno conseguito risultati migliori con politiche di austerità sono stati Irlanda e Regno Unito, nonostante gli enormi problemi del sistema bancario irlandese. Entrambe le nazioni hanno operato prevalentemente tagli di spesa.

di Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi
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