La scienza che combatte la poverta' educativa
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La scienza che combatte la poverta' educativa

IL LABORATORY FOR EFFECTIVE ANTI POVERTY POLICIES DELLA BOCCONI FORNISCE EVIDENZA EMPIRICA RIGOROSA SUL FUNZIONAMENTO DI INTERVENTI EDUCATIVI SPERIMENTALI, CHE POTREBBERO ESSERE REPLICATI SU AMPIA SCALA PER MIGLIORARE LA QUALITA' DELLA FORMAZIONE

La povertà educativa ha due dimensioni. La prima, più facile da osservare e perciò più discussa, è quella quantitativa. In Italia, il 13,1% dei giovani non completa le scuole superiori, uno dei peggiori dati tra i paesi occidentali, e la percentuale di adulti tra i 25 e i 64 anni con un titolo di studio universitario (21%) è pari alla metà della media OCSE. Ma c’è anche una dimensione qualitativa, che riguarda un accesso all’istruzione distorto su base socioeconomica o la mancanza di un ambiente di apprendimento adeguato ai bisogni di tutti. Alla percentuale di ragazzi che abbandonano la scuola superiore, se ne deve aggiungere un altro 9,5% che la completa, ma senza raggiungere le competenze di base minime.
 
Della dimensione qualitativa della povertà educativa si occupano da anni i ricercatori del LEAP, il Laboratory for Effective Anti-Poverty Policies della Bocconi, facilitati anche da un accordo con l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di istruzione e di Formazione (INVALSI) e con i ministeri dell’Istruzione e del Merito e dell’Università e della Ricerca, che garantisce l’accesso a dati anonimizzati di grande qualità.
 
L’attività di valutazione del laboratorio, supportata dalla Fondazione Romeo ed Enrica Invernizzi e, per progetti specifici, da Fondazione Cariplo e Unicredit Foundation, ha dimostrato di poter dare ai decisori politici un’evidenza empirica rigorosa sul funzionamento di interventi educativi sperimentali che, quando si siano dimostrati efficaci, potrebbero essere replicati in scala più amplia per migliorare la qualità della formazione.
 


 
Uno dei momenti più delicati della carriera scolastica, in Italia, è il passaggio dalla scuola secondaria di primo a quella di secondo grado (dalle medie alle superiori, nel linguaggio comune). I professori della scuola secondaria di primo grado sono tenuti a dare un consiglio orientativo, cioè un consiglio su quale indirizzo intraprendere, basato sulle potenzialità degli studenti. Oltre a influenzare le famiglie, il consiglio orientativo può essere uno dei criteri con cui le scuole superiori selezionano i nuovi iscritti, nel caso in cui non siano in grado di soddisfare tutte le richieste per mancanza di spazi o altre risorse. Ebbene, gli studi di due affiliati al LEAP, presentati nel corso della conference annuale del Laboratorio (v. foto soipra), mostrano che i consigli orientativi, da un lato, soffrono di distorsioni basate sulla condizione socioeconomica degli studenti e, in grado minore, sul loro genere, e che, dall’altro, queste distorsioni possono essere attenuate fornendo ai professori informazioni adeguate.
 
In un lavoro ancora in fieri, Francesca Miserocchi (Harvard), Eleonora Patacchini (Bocconi) e Michela Carlana (Harvard e LEAP) hanno calcolato che, a parità di punteggio nei test standardizzati INVALSI, uno studente la cui madre abbia frequentato l’università ha una probabilità più alta del 60% di ricevere come consiglio orientativo un liceo classico o scientifico rispetto a uno studente la cui madre non abbia frequentato l’università. Quando, tramite un esperimento randomizzato, le tre studiose hanno descritto due studenti con gli stessi voti e gli stessi interessi, ma con background socioeconomici diversi, ad alcuni docenti, e hanno loro chiesto che consiglio orientativo avrebbero dato, una dinamica simile si è confermata anche in laboratorio.
 
“Eppure, la scuola dovrebbe rappresentare l’opportunità di superare le disuguaglianze e la scarsa mobilità sociale sempre più diffuse in Occidente,” afferma Carlana. “La nostra speranza è che l’evidenza che viene dalla ricerca possa migliorare le politiche pubbliche.” Le autrici hanno perciò cominciato a usare i dati in un interessante esperimento e hanno fornito ad alcuni docenti una comparazione tra i loro consigli orientativi a studenti di diverso background socioeconomico e quelli dei docenti dell’intera provincia di riferimento. In media, la distorsione si è ridotta, ma per l’effetto combinato di due forze contrastanti. “Chi era molto sotto la media nel consigliare i licei ai ragazzi socioeconomicamente svantaggiati lo ha fatto più spesso, ma chi era sopra la media ha leggermente ridotto questo genere di consiglio,” dice ancora Carlana. “Sembrerebbe che la tendenza sia a uniformarsi al comportamento prevalente.”

  

Giunge a conclusioni del tutto simili il lavoro di Gianluca Argentin (Università di Milano-Bicocca e LEAP) con Elisa Manzella (Università di Brescia), Giulietta Zanga (Università degli Studi di Milano) e Carlo Barone (Sciences Po). “Abbiamo diviso gli studenti del nostro campione in tre gruppi, a seconda del background socioeconomico e abbiamo osservato che, a parità di ogni altra caratteristica, chi è nel terzo più alto ha una probabilità sostanzialmente maggiore di ricevere un consiglio orientativo per un liceo classico o scientifico,” afferma Argentin. “Abbiamo anche osservato una certa segregazione di genere, che colpisce soprattutto i maschi, ai quali i professori fanno fatica a consigliare scuole percepite come tipicamente femminili.”
 
Anche Argentin e colleghi, in modo del tutto simile all’altro gruppo di autori, hanno descritto a un certo numero di docenti studenti del tutto simili, salvo che per il background socioeconomico e hanno osservato le differenze di consiglio orientativo. Nel loro caso, hanno erogato a un certo numero di docenti un corso di formazione online con interventi di esperti di disuguaglianza e orientamento e un booklet di consigli. “Dopo l’intervento formativo,” dice Argentin, “la tendenza è di consigliare più spesso un liceo, soprattutto quello scientifico, anche a studenti di background socioeconomico più basso.”
 


Pamela Giustinelli (Bocconi e LEAP), con Stefano Carattini Georgia State University & University of St. Gallen) e Marcella Veronesi (Technical University of Denmark e Università di Verona) sta analizzando il caso dell’introduzione del tema del cambiamento climatico nei curricula scolastici italiani, nell’ambito dell’insegnamento trasversale di educazione civica. “L’obiettivo del nuovo insegnamento,” afferma Giustinelli, “è che i ragazzi siano in grado di fare scelte coerenti con i Sustainable Development Goals dell’Agenda ONU 2030.” Per ora, gli studiosi hanno osservato le attività didattiche e le abitudini comportamentali, conoscenze, opinioni e aspettative climatiche dei docenti, per verificare l’efficacia di un intervento di formazione dei professori (un corso online e multidisciplinare sulle questioni climatiche).
 
“Al momento dell’introduzione dei nuovi temi di insegnamento,” spiega Giustinelli, “tra i docenti c’era comprensibile incertezza. Solo il 6% si considerava bene informato sul tema e le loro credenze sul cambiamento climatico e sul fatto che sia causato dall’uomo erano in linea con quelle del resto della popolazione. A scuola, il tema veniva affrontato sporadicamente e con un forte accento sui problemi, anziché sulle soluzioni.” L’intervento formativo ha fatto aumentare la convinzione che il cambiamento sia causato dall’uomo, la speranza che possano esserci delle soluzioni e la rilevanza percepita dei comportamenti individuali. Ora si dovrà passare all’analisi degli eventuali cambiamenti tra gli studenti di questi professori, per valutare l’efficacia dei meccanismi di trasmissione.
 


Le distorsioni che portano soprattutto gli studenti con un background socioeconomico più alto a frequentare le scuole migliori proseguono anche con l’università. Dove vige il numero chiuso, i meno abbienti hanno più difficoltà a superare i test e in alcune realtà, soprattutto degli Stati Uniti, per loro sono previsti alcuni vantaggi. Grazie alla collaborazione dei diversi governi cileni che si sono succeduti dal 2014 in poi, Michela Tincani (University College London e LEAP), Fabian Kosse (Wuerzburg University) ed Enrico Miglino (University College London) hanno potuto valutare l’efficacia di una politica “estrema,” che consente al top 15% degli studenti di alcune scuole svantaggiate di accedere alle università più selettive indipendentemente dai risultati del test di ingresso. “Si tratta di famiglie il cui reddito è la metà del reddito mediano cileno,” racconta Tincani, “e un terzo di quello delle famiglie di chi entra nelle università più prestigiose con i test. Il 61% di loro è considerato molto vulnerabile e il loro livello di conoscenze molto più basso di quello degli altri studenti ammessi.”

  
 
La politica si è dimostrata efficace nello stimolare l’iscrizione all’università, ma questi studenti interrompono gli studi universitari più spesso degli altri (l’effetto netto a fine università rimane comunque positivo), forse anche a causa di alcune conseguenze indesiderate dell’introduzione della politica. “Purtroppo, abbiamo osservato che gli studenti che si aspettano di essere nel top 15% della propria scuola finiscono per studiare meno di prima, visto che non saranno testati a fine anno, senza rendersi conto che il loro impegno di oggi influirà anche sui risultati all’università,” spiega Tincani. Inoltre, le differenze di rendimento e di voti tra i diversi studenti sono piccolissime, con il risultato che ben il 43% di loro pensa di essere nel top 15%. La riduzione di impegno è, perciò, generalizzata. “Gli studenti, insomma, sono molto ottimisti e un intervento correttivo che li renda più realisti, informandoli sul loro effettivo ranking nel corso dell’anno, potrebbe forse indurre chi ha davvero speranze di entrare nel top 15% a studiare di più.”
 


In ambito LEAP, negli scorsi anni, è stato ideato (e si sta valutando) un programma di tutoraggio online (TOP) rivolto a studenti svantaggiati delle scuole medie e realizzato da studenti universitari volontari, con la supervisione di un team di pedagogisti. Avviato nei mesi del lockdown per la pandemia, è ormai giunto alla quarta edizione ed è coordinato da Eliana La Ferrara (Harvard, direttrice scientifica del LEAP), Michela Carlana (Harvard e LEAP), Giulia Pastori e Andrea Mangiatordi (pedagogisti dell’Università di Milano Bicocca, che hanno curato la formazione e la supervisione dei volontari).
 
Nel corso dei quattro anni, hanno potuto beneficiare del supporto del TOP 2.398 studenti, i cui risultati sono stati comparati con quelli di studenti perfettamente comparabili. La valutazione dell’intervento del 2020, attuato in pieno lockdown, ha mostrato che un programma di tre ore di tutoraggio alla settimana ha avuto effetti significativi sui risultati scolastici degli studenti (+4,7%), sul benessere (+26%) e sulle competenze socio-emotive (+21,1%). Un programma intensivo di sei ore a settimana ha raddoppiato il miglioramento dei risultati accademici. Inoltre, ne hanno beneficiato soprattutto gli studenti i cui genitori non sono laureati, fanno gli operai o comunque non avevano la possibilità di lavorare da casa durante il lockdown.
 
Quando il programma è stato implementato negli anni successivi, sono stati confermati i miglioramenti in termini di risultati scolastici, mentre quelli di tipo psicologico, propri del periodo di lockdown, non si sono ripetuti.

  

di Fabio Todesco
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